Associazione
Italiana Fitoterapia e Fitofarmacologia - Ente Di Formazione Regionale
Storia
della Fitoterapia
La
medicina a Roma.
I medici veri e propri fanno la loro comparsa assai tardi
a Roma. Infatti è solo a partire dal III secolo a.C.
che arrivano nella città i primi guaritori di professione.
Si tratta in prevalenza di stranieri (soprattutto Greci)
che i Romani guardano inizialmente con gran sospetto. Questo
non significa certo che prima di quell’epoca i Romani
non conoscessero e non attuassero alcuna pratica terapeutica.
Si trattava però di una medicina casalinga, affidata
alla sapienza e alle conoscenze del padre (o della madre)
di famiglia. La medicina romana (prima ma anche dopo l’arrivo
dei medici greci) si basava su scelte individuali, una specie
di “fai da tè”, quello che oggi chiameremmo
“automedicazione” (come quando, per esempio,
ci curiamo da soli un raffreddore, ricorrendo ai cosiddetti
farmaci da banco, quei farmaci cioè che si possono
acquistare in farmacia senza ricetta e che - forse - si
possono assumere anche su iniziativa personale senza il
parere del medico e senza troppo danno...). A differenza
delle nostre scelte individuali, però, che spesso
si basano sul sentito dire, o - peggio - sono determinate
dalla pubblicità di questo o quello sciroppo per
la tosse e dalle mode, le scelte terapeutiche dei Romani
erano supportate da una tradizione secolare, spesso intessuta
di superstizioni e credenze magiche, ma altrettanto spesso
confortata, se non da dati scientifici come li intendiamo
oggi, almeno da un’attenta osservazione empirica della
cause e degli effetti. In altre parole e stato assodato
che non di rado le sostanze e le terapie usate dagli antichi
sono effettivamente valide ancor oggi. È il caso,
per esempio, del cavolo, ritenuto da Catone “superiore
a tutti gli ortaggi” (De agricoltura 156,1) e considerato
una panacea valida per tutti i mali. E in effetti si è
scoperto di recente che questa famiglia di ortaggi è
realmente valida nella prevenzione di numerose e anche gravi
patologie. Dunque i Romani conoscevano molti rimedi basati
sulla preparazione di medicamenti preparati a partire da
sostanze naturali, prevalentemente erbe (selenita herbariim).
Questo sapere si tramandava oralmente di padre in figlio
ed è probabile che la fonte di queste conoscenze
fosse la medicina etrusca. L’interesse romano per
la botanica medica ha una storia lunga e assai ricca. Le
testimonianze in questo campo spaziano da grandi studiosi
come Catone1, Vairone2, Plinio il Vecchio e Celso3, senza
contare medici famosi come Scribonio Largo4 e Dioscoride5
per arrivare sino all’arcinoto Galeno. Questi nacque
a Pergamo nel 129 d.C. Secondo la moda ellenistica (veniva
da Pergamo, una delle più colte città ellenistiche)
ci ha lasciato molte notizie sulla sua vita. Fedele all’educazione
ricevuta dal padre (che lo aveva avviato agli studi di filosofia
e di medicina), continuò la sua formazione ad Alessandria,
dove studiò soprattutto anatomia e farmacologia.
Tornato a Pergamo esercitò la professione, soprattutto
come medico dei gladiatori. Giunto a Roma nel 163, si procurò
subito una illustre e ricca clientela tra la più
alta aristocrazia della capitale tanto che venne chiamato
ufficialmente dagli imperatori Marco Aurelio e Lucio Vero
come medico di corte. Scrisse molto ma non tutto ci è
stato tramandato. La maggior parte di ciò che ci
è rimasto è scritto in greco. Molto altro
è stato tradotto in latino e in arabo e ci resta
in traduzione. Le sue opere ebbero infatti grande fortuna
nel mondo arabo. Fu poi riscoperto nel Rinascimento. La
sua medicina rimase alla base di tutto il sapere medico
sino a tutto il XVII secolo.
Galeno, tra l’altro, ha lasciato traccia indelebile
nella nostra lingua, definiamo “galenici” infatti
i medicamenti preparati volta a volta dal farmacista su
ricetta del medico.
Le terapie a base di erbe risultano conosciute anche da
autori latini non propriamente addetti ai lavori, com’è,
per esempio, nel caso del poeta Marziale, che raccomanda
prugne secche, lattuga e malva per combattere la stitichezza.
Le
malattie.
Molte patologie erano dovute nelle città alle condizioni
insalubri delle abitazioni sovraffollate e senza luce ne
aria sufficienti. Notevolissima era la mortalità
da parto (ricordiamo però che gravidanza e parto
hanno fatto migliaia di vittime sino al secolo scorso).
Una patologia particolare era il saturnismo, un’intossicazione
da piombo, dovuta al fatto che i Romani bevevano acqua contenente
residui di questo metallo rilasciati dalle tubature degli
acquedotti. L’assenza di sistemi di conservazione
dei cibi (specialmente l‘assenza di refrigerazione)
doveva causare frequentemente intossicazioni alimentari.
La cura dei denti veniva praticata e pare che i Romani avessero
imparato dagli Etruschi a fare persino le protesi dentarie
in oro. E testimoniata un’intensa attività
di oculisti. Pare infine che anche gli antichi soffrissero
di stress, ma, se persino ai giorni nostri si fa parecchia
confusione su questo termine, chissà cosa intendevano
esattamente i Romani... I limiti del presente lavoro non
consentono un’indagine - neanche approssimativa -
delle malattie al tempo dei Romani. Tuttavia possiamo ricordare
che la sezione di Plinio6 dedicata alla Botanica, che abbiamo
setacciato alla ricerca delle erbe medicamentose (libri
XX-XXVII), pur procedendo per un ordine dato dalle piante
e non dalle malattie, è interrotta da un libro, il
ventiseiesimo, che inverte la tendenza generale, analizzando
le malattie e, per ogni patologia, indicando le erbe adatte
alla cura della stessa. Poi, dal libro XXVII, riprende l’usuale
tassonomia. Così, scorrendo il libro XXVI, si prova
la singolare sensazione (in un testo moderno sarebbe impensabile!)
di un rovesciamento di prospettiva, non spiacevole e senz’altro
di sollievo dopo un’infinita enumerazione di piante.
Lo studio delle malattie nell’antichità, un
campo che, tra l’altro, è stato assai studiato
anche di recente e secondo nuove prospettive, potrebbe essere
il tema di un altro lavoro interdisciplinare, per una classe
terza o quarta del nostro indirizzo di studi.
Le
terapie e i farmaci
Un aspetto fondamentale della medicina, ora come allora,
era rappresentato dalle terapie.
Gli antichi ne conoscevano tre: fisico-dietetica, farmacologica,
chirurgica.
Ci occuperemo qui solo della seconda.
Delle altre due ricordiamo che la fisico-dietetica aveva
una funzione prevalentemente preventiva (ricordiamo che
dieta, in greco, vuoi dire fondamentalmente “modo
di vita”, o, come si direbbe oggi, “stile di
vita”).
Quanto alla chirurgia si ricorreva ad essa come ultima speranza,
solo quando le altre terapie non avevano dato risultato
(ed è comprensibile, visto che sopravvivere ai ferri
doveva essere assai raro...). A questo proposito risale
addirittura a Ippocrate7 il motto: “Ciò che
le medicine non curano, lo cura il bisturi, ciò che
il bisturi non cura, lo cura il fuoco, ciò che il
fuoco non cura, va reputato insanabile” (Ippocrate,
aforisma 7,87).
Grandi speranze dovevano essere quindi riposte nelle terapie
farmacologiche.
A questo proposito è necessario ricordare che la
parola medicamentum significa: sostanza medicinale, filtro,
pozione, impiastro, ma anche veleno, cosmetico, belletto,
tintura, preparato per alimenti, concime. Del resto anche
il nostro “farmaco” deriva dal greco phàrmakon,
che è anch’esso vox inedia, significando sia
“medicamento” che “veleno8”, “sostanza
tossica” (a seconda del contesto terapeutico, delle
modalità di somministrazione, delle dosi, ecc.).
Un caso esemplare in questo senso è quello della
cicuta, come vedremo oltre. Usata pura provoca la morte,
ma diluita e associata ad altre sostanze medicamentose,
è una medicina. Fa parte ancora di questa categoria
la mandragora, erba curativa da usarsi con cautela e, tra
l’altro, ingrediente per filtro miracolosa nella celeberrima
commedia di Niccolo Machiavelli.
Gli esempi potrebbero essere ancora molti, ma non si può
dimenticare il caso dell’oppio. Per secoli e secoli
unico sostegno e sollievo per l’uomo tormentato dal
dolore, l’oppio e i suoi derivati sono diventati dal
secolo scorso, sostanze che portano alla morte migliaia
di persone nel mondo, perché usate come droghe e
perché al centro di interessi economici su scala
mondiale. Insomma, come osservò Paracelso (1493-1541):
“Ogni cosa è veleno e nulla è privo
di tossicità: è la dose che fa il veleno”.
I farmaci usati provenivano o dal regno minerale, o da quello
animale o dal regno vegetale. Ci occuperemo qui solo di
quest’ultima categoria di rimedi e, all’interno
di essa, accenneremo solamente all’uso delle erbe
officinali spontanee. Quanto a queste ultime è bene
ricordare che gli antichi le usavano, oltre che a scopo
terapeutico, anche per altri vari scopi: in cucina, per
arricchire il gusto delle pietanze, ma anche per preparare
prodotti cosmetici.
In questo senso è interessante notare come per gli
antichi non esistesse un confine netto tra salute, gusto
e bellezza, e, a proposito della cucina, l’utilizzo
di un’erba non rispondeva a una mera esigenza del
palato, ma si configurava piuttosto come operazione rivolta
alla salvaguardia della salute e alla valorizzazione degli
alimenti. Non è un caso, del resto, se i medici della
Scuola Salernitana consigliavano: “Se ti mancano i
medici, ti giovino queste tre medicine: mente lieta, quiete
e dieta giusta”.
Possiamo ricordare anche il notissimo aforisma di Ippocrate
che apre la raccolta di pensieri che ci è stata tramandata
a suo nome: “La vita è breve, l’arte
è lunga, l’occasione è fugace, l’esperienza
è fallace, il giudizio è difficile. Bisogna
che non solo il medico sia pronto a fare da sé le
cose che debbono essere fatte, ma anche il malato, gli astanti,
le cose esterne” (Aforismi, sez. I, I).
Una visione olistica della salute che oggi sembra essere
riscoperta da molti. Di solito i medici preparavano personalmente
i medicamenti; gli ingredienti venivano talora forniti da
raccoglitori di erbe di professione. Esistevano tuttavia
anche botteghe specializzate, ove si producevano o confezionavano
farmaci. Le piante medicinali rappresentavano l’ingrediente
di gran lunga più importante dei farmaci in uso.